Sabato il lancio di Xrism, telescopio per raggi X

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PER L’ESA, UNA MISSIONE PONTE FRA XMM-NEWTON E ATHENA

Missione dell’agenzia spaziale giapponese Jaxa per lo studio dell’universo alle alte energie, Xrism (X-Ray Imaging and Spectroscopy Mission) dovrebbe partire sabato prossimo, 26 agosto, alle 02:34 ora italiana, a bordo di un razzo H-IIA dal Tanegashima Space Center (Giappone). Alla realizzazione del telescopio ha contribuito anche l’Europa

  Redazione Esa   21/08/2023

Il telescopio spaziale Xrism. Crediti: Jaxa

È in programma per sabato 26 agosto il lancio della missione Xrism (X-Ray Imaging and Spectroscopy Mission), un telescopio spaziale progettato per osservare gli oggetti e gli eventi più energetici del cosmo, con lo scopo di comprendere l’evoluzione dell’universo e la struttura dello spaziotempo. Xrism è una collaborazione tra l’agenzia spaziale giapponese Jaxa e la Nasa con una partecipazione significativa dell’Esa, alla quale sarà assegnato l’otto per cento del tempo di osservazione disponibile del telescopio, consentendo agli scienziati europei di proporre sorgenti celesti da osservare ai raggi X e di compiere progressi in questo settore dell’astronomia.

«L’astronomia X ci permette di studiare i fenomeni più energetici dell’universo. È la chiave per rispondere a importanti domande dell’astrofisica moderna: come si evolvono le strutture più grandi dell’universo, come la materia di cui siamo fatti si è distribuita nel cosmo e come le galassie sono modellate dai buchi neri massicci presenti al loro centro», dice Matteo Guainazziproject scientist Esa per Xrism. «Xrism sarà dunque un ponte prezioso tra le altre due missioni per raggi X dell’Esa: Xmm-Newton, che sta ancora funzionando a meraviglia dopo 24 anni di permanenza nello spazio, e Athena, il cui lancio è previsto per la fine del 2030».

L’universo alle alte energie

Quando osserviamo il cielo vediamo stelle e galassie, ma queste ci dicono relativamente poco sul funzionamento dell’universo. Molto di più può rivelarci il gas – invisibile ai nostri occhi – presente al loro interno e nello spazio che le separa. Gas che emette raggi X. I raggi X vengono prodotti dalle esplosioni più energetiche e nei luoghi più caldi dell’universo. Tra questi c’è il gas caldissimo che avvolge le più grandi strutture dell’universo: gli ammassi di galassie. La Jaxa ha progettato Xism proprio per rilevare la luce in banda X emessa da questo gas, e aiutare così gli astronomi a misurare la massa totale di questi sistemi – fornendo così indizi sulla formazione e sull’evoluzione dell’universo.

Infografica su Xrism. Crediti: Esa

Le osservazioni di Xrism degli ammassi di galassie forniranno anche informazioni su come l’universo ha sintetizzato e distribuito gli elementi chimici. Il gas caldo all’interno degli ammassi è un residuo della nascita e della morte delle stelle nel corso della storia dell’universo. Studiando i raggi X emessi dal gas, Xrism scoprirà quali “metalli” – così gli astronomi chiamano gli elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio – contiene e mapperà le strade attraverso le quali l’universo si è arricchito di questi elementi.

Nel frattempo, Xrism si avventurerà anche nella fisica fondamentale, scrutando più da vicino i singoli oggetti che emettono raggi X. In particolare, misurerà la luce X proveniente da oggetti incredibilmente densi, come i buchi neri supermassicci attivi che si trovano al centro di alcune galassie. Misure che aiuteranno a capire come questi oggetti deformano lo spaziotempo circostante e in che misura influenzano le galassie che li ospitano attraverso “venti” di particelle espulsi a velocità prossime a quella della luce.

Il contributo dell’Esa a Xrism

«L’Esa e la comunità europea sono da tempo coinvolte nei telescopi spaziali ad alta energia della Jaxa», ricorda Guainazzi. «Continuare questa partnership attraverso Xrism comporta enormi vantaggi per entrambe le agenzie spaziali».

La comunità europea dell’astronomia delle alte energie è molto qualificata. I suoi membri hanno partecipato alla definizione degli obiettivi scientifici di Xrism e sono stati incaricati dalla Jaxa di scegliere molti degli oggetti cosmici di test che la missione osserverà per verificarne le prestazioni prima dell’inizio del programma di osservazione scientifica.

La ruota portafiltri dello strumento Resolve. Crediti: Sron

Oltre a questo contributo scientifico, la Jaxa ha fatto affidamento sull’Europa per la fornitura di diversi componenti hardware che saranno fondamentali per il successo della missione. L’Esa ha fornito un telescopio ottico – già collaudato per l’impiego nello spazio – progettato per garantire che Xrsim sappia sempre dove sta puntando, e due dispositivi separati che insieme rileveranno il campo magnetico terrestre e orienteranno il satellite di conseguenza.

L’Europa ha anche fornito a Xrism il nuovo strumento Resolve, che misurerà l’energia dei fotoni X in arrivo. Ciò consentirà agli astronomi di determinare la temperatura e il moto del gas caldo che emette raggi X con una precisione senza precedenti. Resolve è un apripista scientifico e tecnologico per la futura missione Athena dell’Esa, che volerà con uno strumento molto simile. Mantenere il rivelatore di Resolve a temperature criogeniche – appena una frazione di grado sopra lo zero assoluto – è fondamentale. L’industria europea ha fornito i “tubi di calore ad anello” (loop heat pipes) che si occuperanno di questo importante compito. In particolare, Sron, l’istituto di ricerca spaziale dei Paesi Bassi, ha fornito la ruota a sei filtri dello strumento – a seconda dell’obiettivo scientifico, si può scegliere quale filtro utilizzare – e l’Università di Ginevra, in Svizzera, ha sviluppato l’elettronica per la ruota portafiltri.

Fonte: comunicato stampa Esa

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Culle e tombe di stelle, le più lontane mai viste

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LO STUDIO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL

Alma ha osservato nitidamente le nubi di formazione stellare presenti in una galassia a 13,2 miliardi di anni luce da noi. Strutture di questo tipo, legate alla vita e alla morte delle stelle, non erano mai state viste a distanze così grandi. L’eccezionale risoluzione di Alma ha permesso di studiarle in dettaglio, e potranno ora fornire indizi sulla formazione delle galassie nell’universo primordiale

  Chiara Badia   21/08/2023

From the cradle to the grave, dalla culla alla tomba, cantavano gli U2 nella loro “All I want is you”. Tanto desiderio e curiosità avranno animato anche gli scienziati che, dopo svariati tentativi, sono finalmente riusciti a catturare, per la prima in modo molto dettagliato, i segreti della vita e della morte delle stelle nell’universo primordiale.

Osservazioni con Alma delle nebulose in Mac0416_Y1. A sinistra, in rosso la polvere, in verde l’ossigeno e in blu la luce stellare ripresa dal telescopio spaziale Hubble. A destra, le sole emissioni di polvere viste da Alma. Nella regione centrale è visibile una cavità ellittica allungata verticalmente, una possibile superbolla. Crediti: Alma (Eso/Naoj/Nrao), Y. Tamura et al., Nasa/Esa Hubble Space Telescope

La ricerca, pubblicata il mese scorso su The Astrophysical Journal dal team internazionale guidato da Yoichi Tamura, professore alla Nagoya University, e Takuya Hashimoto, del Dipartimento di scienze pure e applicate all’Università di Tsukuba, entrambe in Giappone, presenta le osservazioni di giovani galassie – appena 600 milioni di anni dopo il Big Bang – a una risoluzione senza precedenti grazie ad Alma, l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, in Cile. Situato a 5000 metri d’altitudine nel deserto di Atacama, il radiotelescopio Alma ha permesso di distinguere i siti di formazione delle stelle, nonché un possibile sito di “morte stellare”, in una nebulosa oscura della galassia Macs0416_Y1, nella costellazione di Eridano, distante 13,2 miliardi di anni luce da noi. Si tratta della più lontana osservazione di strutture di questo tipo mai effettuata prima d’ora.

Le nebulose oscure – dette anche nubi molecolari – sono aggregati di resti stellari fatti di polvere e gas freddi: osservare in dettaglio cosa avviene all’interno di queste nebulose, vuol dire studiare come nascono e muoiono le stelle. Al momento della loro “nascita”, le stelle sottraggono gli elettroni dal gas circostante e lo ionizzano grazie alle alte temperature, formando così una nebulosa diffusa a emissione, una nube interstellare di gas ionizzato che emette luce di vari colori.

Analizzando la distribuzione di polvere e ossigeno con la massima precisione possibile, si ottengono indizi per capire come si formano le stelle nelle nebulose oscure, come si formano le nebulose diffuse e come nascono le galassie. Precedenti osservazioni della galassia Macs0416_Y1 condotte dallo stesso gruppo di ricerca avevano già rilevato onde radio emesse sia dall’ossigeno che dalla polvere intuendone l’origine, rispettivamente, nelle nebulose oscure e in quelle diffuse. Ma questa volta, per carpire i segreti dell’universo primordiale, il team ha cercato di mettere più a “fuoco l’obiettivo”, ingrandendo Macs0416_Y e prolungando l’osservazione fino a 28 ore. Le 66 antenne di Alma, posizionate nel mezzo del deserto cileno e funzionanti in modalità interferometrica, in modo da ottenere una risoluzione equivalente a quella di un telescopio di 3,4 chilometri di diametro, hanno consentito una risoluzione molto elevata e una sensibilità mai raggiunta prima d’ora su una galassia così lontana, consentendo ai ricercatori di distinguere finalmente tra le due sorgenti di onde radio.

Le antenne di ALMA nel deserto di Atacama sulle Ande cilene. Crediti: ESO/C.Malin

I risultati mostrano che le regioni di segnale della polvere e le regioni di emissione dell’ossigeno sono intricate e si “evitano” a vicenda, suggerendo il processo in cui le stelle appena formate all’interno delle nebulose ionizzano il gas circostante. Inoltre, il team ha individuato un’enorme cavità che si estende per circa milla anni luce nelle regioni dominate dalla polvere. Quando molte nuove stelle massicce e di breve durata nascono insieme, le esplosioni successive di supernova creano enormi “superbolle” nelle nebulose. Precedenti studi hanno dimostrato che Macs0416_Y1 ha prodotto stelle negli ultimi milioni di anni a una velocità circa cento volte superiore a quella della Via Lattea. È possibile che queste stelle siano nate come un enorme gruppo (ammasso stellare) e siano morte in un’esplosione di supernova di breve durata una dopo l’altra, creando con l’impatto un’enorme “superbolla” vuota. La cavità scoperta, secondo gli scienziati, potrebbe effettivamente essere una “superbolla” di questo tipo, che alla fine potrebbe scoppiare disperdendo gas e detriti stellari all’interno della galassia e nel vasto spazio al di fuori di essa. Questi elementi e la polvere, non solo diventano materiali per la prossima generazione di stelle e pianeti man mano che vengono reintrodotti nelle nebulose oscure, ma trasformano anche la composizione chimica delle galassie e dei loro ammassi.

«In futuro, si potranno ottenere informazioni più dettagliate grazie a osservazioni ad alta risoluzione di questi ammassi stellari, utilizzando strumenti come il telescopio spaziale James Webb e il futuro Extremely Large Telescope», dice Tamura, responsabile del team, molto soddisfatto per le tecnologie impiegate e le prestazioni osservative ottenute con Alma. In generale, infatti, l’aumento della risoluzione – a parità di tempo d’osservazione – va a scapito della sensibilità. In questo caso, invece, la capacità di Alma di ottenere contemporaneamente alta risoluzione e alta sensibilità ha consentito di osservare un oggetto molto debole a ben 13,2 miliardi di anni luce di distanza. «È come osservare da Tokyo la debolissima luce prodotta da due lucciole situate a 3 centimetri di distanza l’una dall’altra sulla cima del Monte Fuji», spiega con entusiasmo Hashimoto, «e riuscire a distinguere la luce di ciascuna delle due lucciole».

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Ridotta l’incertezza sulla costante di Hubble

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Fisica/Physics, Unione Astronomica Internazionale/International Astronomical Union (IAU)

LO STUDIO È PUBBLICATO SU ASTROPHYSICAL JOURNAL

Un team internazionale di ricercatori guidato da Maria Giovanna Dainotti, oggi al National Astronomical Observatory of Japan, ha condotto uno studio che ha permesso di migliorare la precisione dei parametri cosmologici che governano l’espansione dell’universo. Parametri più accurati aiuteranno gli astronomi a determinare come l’universo si è evoluto fino al suo stato attuale e come evolverà in futuro

  Maura Sandri   23/08/2023

I segnali provenienti dalle supernove (riquadro in basso a destra), dai quasar (riquadro al centro a sinistra) e dai lampi di raggi gamma (riquadro in alto al centro) raggiungono la Terra, nella Via Lattea (sullo sfondo), dove possiamo usarli per misurare i parametri cosmologici. Crediti: Naoj

È risaputo che l’universo è in espansione. Ma senza punti di riferimento nello spazio, è difficile misurare con precisione la velocità con cui si sta espandendo. Quindi, gli astronomi cercano punti di riferimento affidabili.

Così come una candela sembra più debole man mano che si allontana – anche se di fatto la candela è sempre la stessa – gli oggetti distanti sembrano più deboli. Se conosciamo la luminosità intrinseca di un oggetto, possiamo calcolarne la distanza in base alla luminosità osservata. Gli oggetti di luminosità nota nell’universo che ci permettono di calcolare la distanza sono chiamati candele standard.

Un team internazionale di ricercatori guidato da Maria Giovanna Dainotti, Assistant Professor al National Astronomical Observatory of Japan (Naoj), e Giada Bargiacchi, dottoranda presso la Scuola Superiore Meridionale di Napoli – con l’aiuto delle strutture di supercalcolo del Naoj, gestite da Kazunari Iwasaki, Assistant Professor al Naoj e membro del Center for Computational Astrophysics, e di Malgorzata Bogdan, esperta in statistica e professoressa all’Università di Lund – ha inaugurato un nuovo campo di ricerca sfruttando l’uso di una varietà di metodi statistici innovativi per analizzare i dati di varie candele standard quali supernovequasar e gamma ray burst. Diverse candele standard sono utili in diversi intervalli di distanza, quindi la combinazione di più candele standard ha permesso al team di mappare aree più ampie dell’universo.

«Con questo studio abbiamo dato seguito a un filone di ricerca che vede al centro il dibattito molto discusso sul tema della costante di Hubble e del suo valore. Tema che va avanti ancora sin dai tempi di Hubble», commenta a Media Inaf la prima autrice, Maria Giovanna Dainotti. «Con un gruppo di ricercatori provenienti da varie università e centri di ricerca (National Astronomical Observatory of Japan e Center for computational astrophysics, Lund University, National Autonomous University of MexicoUniversity of Nevada Las Vegas, Scuola Superiore Meridionale di Napoli e Jagiellonian University) e con l’aiuto del supercomputer al Naoj e di nuovi metodi statistici, siamo riusciti a diminuire il valore dell’incertezza sulla costante di Hubble fino al 35 per cento del valore oggi stimato. Questo è stato possibile con l’utilizzo di varie sorgenti combinate insieme ma soprattutto con l’utilizzo di nuovi metodi statistici».

«Le likelihood usate fin d’ora per la valutazione dei parametri cosmologici hanno un problema di fondo: non sono rappresentative della popolazione delle supernove di tipo Ia, dei quasar e delle oscillazioni acustiche barioniche. Correggendo per le opportune likelihood, cioè per le opportune distribuzioni rappresentative dei campioni che utilizziamo, siamo riusciti a ottenere un netto miglioramento sul valore della costante di Hubble. Questo risultato ci fa riflettere sul fatto che in un’epoca di cosmologia di precisione, anche altri mezzi, non solo quelli osservativi, possono aiutarci enormemente», conclude Dainotti.

Parametri più accurati aiuteranno a determinare se l’universo continuerà a espandersi per sempre, o eventualmente collasserà su sé stesso.

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ASTRONOMIANEWS CANDELE STA

Scoperta una seconda sorgente dei ‘fantasmi’ dell’universo Neutrini ad alta energia da una galassia vicina

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy

Redazione ANSA  

04 novembre 2022 10:37

Rappresentazione artistica della galassia Messier 77 (fonte: Jack Pairin, IceCube/NSF) © Ansa

Rappresentazione artistica della galassia Messier 77 (fonte: Jack Pairin, IceCube/NSF) – RIPRODUZIONE RISERVATA

Dai ghiacci del Polo Sud, l’esperimento internazionale IceCube ha intercettato una nuova sorgente dei ‘fantasmi’ dell’universo, i neutrini cosmici: si tratta di Messier 77 (anche nota come NGC 1068), una delle galassie attive più studiate e vicine a noi che ospita un vorace buco nero supermassiccio.

Le sue caratteristiche sono diverse rispetto a quelle della prima fonte di neutrini cosmici identificata nel 2018, la blazar (ossia una galassia attiva con un buco nero supermassiccio al centro) TXS 0506+56, e questo lascia intendere che esistano diverse tipologie di sorgenti di neutrini. La scoperta è pubblicata su Science.

“Stiamo scrutando dentro le regioni attive della galassia NGC 1068 a 47 milioni di anni luce di distanza”, afferma Gary Hill, fisico dell’Università di Adelaide in Australia e membro della collaborazione internazionale IceCube.

“Osservando i neutrini che emette, saremo in grado di capire meglio i processi estremi di produzione e accelerazione delle particelle che avvengono dentro la galassia, cosa impossibile finora perché altre emissioni ad alta energia non riescono a uscire fuori di essa”.

“La rilevazione di neutrini dal cuore di NGC 1068 migliorerà la nostra comprensione dell’ambiente che circonda i buchi neri supermassicci”, aggiunge Hans Niederhausen della Michigan State University. Questo è proprio il vantaggio dell’astronomia dei neutrini, che studia l’universo sfruttando queste particelle fantasma che interagiscono in modo così debole con la materia da attraversarla senza lasciare traccia.

Nel 2018 il telescopio IceCube (posto tra 1,5 e 2,5 chilometri sotto la superficie del ghiaccio al Polo Sud presso la stazione di Amundsen-Scott) ha identificato la prima fonte di neutrini cosmici nella blazar TXS 0506+056, distante 4 miliardi di anni luce da noi: il fatto che i getti di particelle emessi dal buco nero fossero diretti verso la Terra, ha permesso di osservare unitamente neutrini e raggi gamma in un breve periodo di tempo. La galassia NGC 1068 è 100 volte più vicina a noi, ma è orientata in modo tale che la polvere impedisce l’osservazione diretta della regione centrale da cui partono le emissioni. I raggi gamma vengono assorbiti, mentre i neutrini possono sfuggire. “Dopo l’eccitazione nel 2018 per la scoperta dei neutrini da TXS 0506+056, è ancora più emozionante trovare una fonte che produce un getto continuo di neutrini che possiamo vedere con IceCube”, commenta Hill.

“Nel 2013 il telescopio IceCube ha scoperto l’esistenza di neutrini cosmici di alta energia dalle profondità del ghiaccio antartico”, ricorda Elisa Bernardini, docente dell’Università di Padova (unica istituzione italiana in IceCube) e associata Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare). “A quasi 10 anni da questa scoperta rivoluzionaria, che ha aperto una nuova finestra osservativa sull’universo, i meccanismi all’origine di queste particelle evanescenti sono ancora oggetto di intense ricerche e congetture teoriche. Le caratteristiche notevolmente differenti delle due sorgenti ad oggi identificate suggerisce che ci siano almeno due popolazioni di oggetti astrofisici responsabili dell’emissione di neutrini di alta energia. TXS 0506+056 e NGC 1068 contribuiscono per circa l’un percento al flusso diffuso di neutrini cosmici scoperto da IceCube: la caccia alle sorgenti – conclude l’esperta – è dunque appena iniziata”.

Inviando messaggi per E.T., da Matera allo spazio profondo

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Vita Extraterrestre/Extraterrestrial Life, Vita intelligente Extraterrestre/Extraterrestrial intelligent Life

MATERA 13 mag 2022

MEDIAINAF TV

Si è svolto oggi al Centro di geodesia spaziale “Giuseppe Colombo” di Matera l’evento conclusivo del concorso per le scuole “C’è posta per E.T.”, organizzato dall’Istituto nazionale di astrofisica e dall’Agenzia spaziale italiana. Con Maura Sandri (Inaf), Luciano Garramone (Asi) e Alessandro Bogliolo (Univ. Urbino).

Servizio di Laura Leonardi

#CodyTrip#CodyMaze#Coding

MediaInaf Tv è il canale YouTube di Media Inaf (http://www.media.inaf.it/)

La lunga caccia al buco nero della Via Lattea

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Buchi neri/Black holes, Buco Nero/Black Hole, Consorzio del Telescopio dell'Orizzonte degli Eventi/Event Horizon Telescope Consortium (EHTC)

Dopo anni di sospetti

Redazione ANSA  

13 maggio 2022 17:40

Radiotelescopi e in alto la foto di Sagittarius A* (fonte: Collaborazione Eht) © ANSA
Radiotelescopi e in alto la foto di Sagittarius A* (fonte: Collaborazione Eht) – RIPRODUZIONE RISERVATA

Il primo indizio, 48 anni fa, era stato il movimento delle stelle intorno a quello che aveva tutta l’aria di essere un corpo invisibile, compatto e molto massiccio al centro della Via Lattea.

Da allora sono stati raccolti indizi sempre più importanti e finalmente la prima foto ha fornito adesso la prova definitiva che il buco nero Sagittarius A* esiste davvero.

“Si parlava di un buco nero al centro della Via Lattea già nel 1974“, dice all’ANSA Ciriaco Goddi, di Università di Cagliari, Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e Istituto nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

“La prima osservazione – aggiunge – era stata fatta dall’osservatorio americano di Green Bank, con 4 radiotelescopi che lavoravano su frequenze radio basse. Avevano visto una sorgente compatta e la spiegazione più plausibile era che si trattasse di un buco nero”. Anni dopo, quella sorgente è stata chiamata Sagittarius A*.

Negli anni successivi sono state fatte molte altre osservazioni, utilizzando diverse lunghezze d’onda. “Nel 1997 – prosegue Goddi – è stata fatta la prima osservazione con due antenne europee, i cui risultati sono stati pubblicati nel 1998″.
Due anni più tardi un altro articolo prevedeva la possibilità teorica di poter vedere, in futuro, quella che i ricercatori chiamano l’ombra di un buco nero, ossia un’immagine nella quale la materia ruota intorno a una zona di confine oltre la quale non è più possibile vedere nulla, il cosiddetto orizzonte degli eventi.

“Nel 2007 – dice Nicola Marchili dell’Inaf – è stato fatto il primo esperimento nel quale tre radiotelescopi sono stati puntati verso il centro della Via Lattea, in una triangolazione che nel 2008 ha permesso di stimare la dimensione della sorgente. “Non era ancora una prova, ma l’ipotesi del buco nero sembrava sempre più probabile”, rileva Marchili. “Il punto era: se è un buco nero deve esserci l’ombra”.

Osservazioni analoghe sono state pubblicate nel 2012 su buco nero della galassia M87, quello fotografato nel 2019. “A poco a poco la collaborazione Event Horizon Telescope (Eht) si arricchita di altri radiotelescopi, fino agli otto che sono riusciti a catturare l’immagine di Sagittarius A*. “Adesso – dicono i ricercatori – finalmente lo abbiamo visto”.

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Dal buco nero più vicino dati straordinari

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De Laurentiis, per capire la gravità, verso nuove leggi fisiche

Redazione ANSA  

13 maggio 2022 17:47

Le numerose immagini che hanno permesso di ottenere quella di Sagittarius A* (fonte: Collaborazione EHT) © ANSA

Le numerose immagini che hanno permesso di ottenere quella di Sagittarius A* (fonte: Collaborazione EHT) – RIPRODUZIONE RISERVATA

Un’immagine straordinaria e un laboratorio unico per studiare i fenomeni fisici previsti dalla teoria della relatività di Einstein e forse per esplorare qualcosa di nuovo e inatteso: per l’astrofisica Mariafelicia De Laurentiis, dell’Università Federico II di Napoli e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), l’immagine del buco nero della Via Lattea, Sagittarius A*, è entusiasmante quanto lo era stata la foto del secolo, quella del buco nero della galassia M87 immortalato nel 2019.



Quella di Sagittarius A* “è una foto molto speciale, è la foto per eccellenza – ha detto De Laurentiis all’ANSA – perché è la foto del nostro buco nero. Per lungo tempo, gli astronomi osservando il moto orbitale di una serie di stelle nelle vicinanze del centro galattico hanno sospettato che in essa si nascondesse un invisibile oggetto compatto supermassiccio di circa 4 milioni di masse solari.

Quelle osservazioni, hanno valso il premio Nobel per la Fisica nel 2020 a due nostri colleghi. Però con l’immagine pubblicata oggi abbiamo la prima prova visiva diretta, schiacciante direi, che questo oggetto è a tutti gli effetti un buco nero”.

E’ una foto importante, ha detto ancora De Laurentiis, perché “essendo più vicino, Sagittarius A* può essere studiato in modi che non sono possibili per altre sorgenti. Per questo è un laboratorio unico per esplorare l’astrofisica dei buchi neri e testare come si comporta la gravità a queste scale così ‘vicine’ all’orizzonte degli eventi”. Si tratta, ha aggiunto, di “un perfetto campo di test per conoscere i campi gravitazionali più intensi, cioè per confermare o escludere le varie teorie relativistiche della gravitazione formulate accanto alla Relatività Generale. La teoria di Einstein potrebbe, infatti, non essere la teoria finale dell’universo, che forse dobbiamo ancora scoprire”.

Per l’astrofisica i buchi neri sono importanti “nella ricerca di una connessione tra la meccanica quantistica e la gravità” e “sono il palcoscenico perfetto per capire come ottenere una teoria che sia in grado di spiegare fenomeni ancora incompresi”. I prossimi passi promettono di essere altrettanto entusiasmanti: “abbiamo iniziato ad ampliare la rete di radiotelescopi e questo ci consentirà di avere una migliore risoluzione e quindi vedere con maggiore precisione le sorgenti. Inizieremo anche a costruire nuovi radiotelescopi e stiamo pensando aduna rete di radiotelescopi formata da satelliti in orbita attorno alla Terra, capaci di restituire immagini cinque volte più nitide”.

Intanto si lavora sui dati raccolti nel 2018 e nel 2021 e nel 2022 sono state condotte nuove osservazioni. “Ne stiamo pianificando altre nei prossimi anni” e “abbiamo grandi aspettative”.
Sagittarius A* e il buco nero di M87 “restano gli obiettivi più importanti: “oltre a studiarne i campi magnetici che li circondano, uno dei prossimi grandi obiettivi scientifici é quello di comprendere come si evolvono nel tempo”, per esempio osservazioni ripetute “sono fondamentali per dimostrare che le loro caratteristiche primarie rimangono costanti nel tempo, come previsto dalla relatività generale. “Stiamo anche cercando delle pulsar in orbita attorno al buco nero della Via Lattea” perché, ha concluso, “una pulsar in un’orbita di breve periodo fornirebbe alcune delle prove più forti della relatività”.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fotografato buco nero nella Via Lattea, e’ la prova che esiste

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Buchi neri/Black holes, Buco Nero/Black Hole, Consorzio del Telescopio dell'Orizzonte degli Eventi/Event Horizon Telescope Consortium (EHTC)

Nella nostra galassia: e’ il piu’ vicino, immagine dalla collaborazione di Eht con italiani

12 maggio, 16:56

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Buco nero nella Via Lattea, per i ricercatori un sogno di 20 anni

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Buchi neri/Black holes, Buco Nero/Black Hole, Consorzio del Telescopio dell'Orizzonte degli Eventi/Event Horizon Telescope Consortium (EHTC)

Goddi (Univ. di Cagliari, Inaf e Infn): “Esperimento proposto in uno studio teorico nel 2000”

12 maggio, 18:31

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Fotografato il buco nero della Via Lattea, è la prova che esiste VIDEO

Astrofisica/Astrophysics, Astronomia/Astronomy, Buchi neri/Black holes, Buco Nero/Black Hole, Consorzio del Telescopio dell'Orizzonte degli Eventi/Event Horizon Telescope Consortium (EHTC)

E’ il più vicino. Immagine da collaborazione Eht con italiani

Enrica Battifoglia  

13 maggio 2022 18:05

Il buco nero della Via Lattea (a destra) a confronto con quello della galassia M87 (fonte: Collaborazione EHT) © ANSA

Il buco nero della Via Lattea (a destra) a confronto con quello della galassia M87 (fonte: Collaborazione EHT) – RIPRODUZIONE RISERVATA

Fotografato il buco nero al centro della nostra galassia, la Via Lattea, e il più vicino, grazie alla collaborazione internazionale Event Horizon Telescope (Eht) e con il contributo italiano di Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf)Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn)Università Federico II di Napoli Università di Cagliari.

L’immagine è la prova definitiva che al centro della Via Lattea c’è un buco nero.
Pubblicato in 10 articoli su The Astrophysical Journal Letters, il risultato è annunciato in tutto il mondo a partire dalla Germania, con lo European Southern Observatory (Eso); in Italia da Inaf, Infn e le due università.



A tre anni dalla prima foto di un buco nero, quello della galassia M87, la nuova immagine conferma definitivamente l’esistenza di un buco nero al centro della nostra galassia: “una prova schiacciante“, come l’hanno definita i ricercatori nella conferenza stampa organizzata a Roma: Ciriaco Goddi di Università di Cagliari, Inaf e Infn, Elisabetta Liuzzo Nicola Marchili e Kazi Rygl, tutti e tre dell’Inaf e, in collegamento, Mariafelicia De Laurentis di Università Federico II di Napoli e Infn, e Rocco Lico di Instituto de Astrofísica de Andalucía e Inaf.

Anche in questo scatto storico, frutto del lavoro di più di 300 ricercatori di 80 istituti in tutto il mondo che insieme formano la Collaborazione Eht, il buco nero non è visibile direttamente perché non emette luce: si vede uno spesso anello di gas brillante, delle dimensioni che avrebbe se fosse intorno alla Luna, che circonda una regione centrale scura chiamata ‘ombra’. L’anello è prodotto dalla luce distorta dalla potente gravità del buco nero, che ha una massa pari a quattro milioni di volte quella del Sole ed è distante dalla Terra 27.000 anni luce, in direzione della costellazione del Sagittario.

Sebbene i due buchi neri sembrino molto simili, quello della Via Lattea è oltre mille volte più piccolo e meno massiccio rispetto a quello di M87.

La foto è stata ottenuta grazie a una rete globale di otto radiotelescopi, compreso il più potente del mondo: Alma (Atacama Large illimeter/submillimeter Array), al quale l’Italia partecipa attraverso lo European Southern Observatory (Eso) e ospita il nodo italiano del Centro regionale europeo Alma presso la sede dell’Inaf di Bologna.
I radiotelescopi funzionano all’unisono, come fossero un unico strumento grande quanto la Terra e insieme sono stati puntati verso il cuore della galassia per diverse notti nell’aprile 2017, raccogliendo dati per molte ore di seguito, in modo simile a quando si fa una lunga esposizione con una macchina fotografica.

Nonostante Sagiuttarius A* sia molto più vicino rispetto al primo buco nero immortalato in una foto, ottenerne l’immagine è stato molto più difficile: poiché è più piccolo, il gas gli ruota intorno molto velocemente, impiegando pochi minuti completare un’orbita intorno al buco nero (contro i giorni impiegati dal gas attorno al buco nero di M87). Di conseguenza per ottenere l’immagine è stato necessario fare una media delle numerose immagini ottenute nella campagna di ricerca.

 Un sogno realizzato dopo 20 anni
“Lo abbiamo sognato per 20 anni”: sono state queste le prime parole che hanno accompagnato la foto del buco nero della Via Lattea. A pronunciarle, nell’incontro organizzato in Italia presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), è stato Ciriaco Goddi , di Università di Cagliari, Inaf e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), mentre l’immagine della Via Lattea sullo schermo scorreva verso il cuore della galassia, fino a mostrare quella sorta di “ciambella” dal colore rossastro, come l’hanno chiamata scherzando i ricercatori.

“E’ un risultato tanto atteso perché dimostra la correttezza delle previsioni contenute nella teoria della relatività generale di Einstein”, ha detto il presidente dell’Inaf, Marco Tavani. Per il vicepresidente dell’Infn, Marco Pallavicini, “questo è un bellissimo giorno per la ricerca perché adesso abbiamo la prova geografica e visibile di quanto sia importante la collaborazione internazionale nel campo della ricerca. E’ la prova che l’Italia è presente nei più importanti risultati scientifici, lavorando in sinergia”.

“Ottenere questa immagine è stato il nostro obiettivo sin dall’inizio del progetto, concepito nel 2000, e poterla rivelare al mondo oggi ci ripaga di tanti anni di lavoro”, ha detto ancora Goddi, che dal 2014 coordina ill gruppo europeo di BlackHoleCam, uno dei progetti da cui ha avuto origine la Collaborazione Eht. “Gli studi sul centro galattico hanno consentito negli anni di eseguire molti test di verifica della relatività generale, ma il risultato presentato oggi è senza precedenti perché permette molte misure originali sulla gravità e di fare nuova scienza sui buchi neri supermassicci e sul loro ruolo nell’evoluzione dell’Universo: abbiamo aperto le porte di un nuovo straordinario laboratorio”, ha osservato nel collegamento con la sede dell’Inaf a Roma Mariafelicia De Laurentis, dell’Università Federico II di Napoli, ricercatrice dell’Infn e coordinatrice del gruppo di lavoro della collaborazione Eht sui test della gravità.

Per riuscire a catturare l’immagine ci sono voluti cinque anni di lavoro, ha detto Elisabetta Liuzzo, della collaborazione Eht e dell’Inaf, e migliaia di simulazioni e di modelli teorici, ha aggiunto Nicola Marchili, dell’Inaf. Al punto che per elaborare i dati è stato necessario utilizzare “grandi infrastrutture di calcolo”, ha detto in collegamento Rocco Lico, di Inaf e dello spagnolo Instituto de Astrofísica de Andalucía. “In questo processo – ha aggiunto – è stata anche compilata una biblioteca senza precedenti di buchi neri simulati da confrontare con le osservazioni”.

Adesso si guarda al futuro e si affinano gli strumenti per andare a caccia di nuove osservazioni. Nel marzo scorso, per esempio, la collaborazione Eht ha condotto una nuova campagna di osservazione che include tre nuovi radiotelescopi. “Si pensa anche a un telescopio virtuale ancora più grande della Terra”, ha detto Kazi Rygl, della collaborazione Eht e dell’Inaf. Al momento si tratta solo di un progetto e l’idea è quello di utilizzare un futuro telescopio spaziale.

Messa, un ‘risultato straordinario’
Un risultato “straordinario”, che dimostra quanto la collaborazione internazionale in campo scientifico sia importante e quanto sia importante per l’Italia farne parte: così il ministro dell’Università e la Ricerca, Maria Cristina Messa, ha commentato la foto del buco nero al centro della Via Lattea. “È uno straordinario risultato della cui portata – ha detto – riusciremo a renderci conto davvero solo con il tempo”.
“Complimenti al grande e globale gruppo di lavoro che ha consentito di raggiungerlo e, all’interno di questo, alle scienziate e agli scienziati italiani. Questa scoperta – ha proseguito il ministro Messa – dimostra come le reti collaborative di ricerca internazionale siano fondamentali per il progresso di tutti, di come sia importante per l’Italia farne parte investendo, in modo continuo e stabile negli anni, in grandi infrastrutture di ricerca e di dati, per rafforzarle e implementarle sempre di più, e di come si debba fare uno sforzo per preservare queste reti anche in momenti di crisi”.
Il ministro ha rilevato inoltre che “questo risultato ci ricorda anche che non si deve avere sempre fretta di raggiungere in pochissimo tempo un determinato risultato: la ricerca ha i suoi tempi e a questi dobbiamo avere la pazienza di adattarci, consapevoli che ne varrà sempre la pena”.

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